Tra le patologie del sistema nervoso, le cefalee sono quelle più comuni e costituiscono la terza malattia più diffusa al mondo, con circa il 12% dell’incidenza (ISS, 2018). L’emicrania, la cefalea muscolo-tensiva e quella a grappolo sono i tipi di mal di testa più prevalenti, potenzialmente disabilitanti e con il maggiore impatto sulla salute pubblica. Tra queste, l’emicrania è il disturbo cefalalgico più studiato in assoluto e il meglio compreso: è caratterizzata da un dolore che si colloca solitamente su un lato della testa e che può essere associato a nausea, vomito e a un’aumentata sensibilità a luce e suoni. Si stima che la sua incidenza in Italia sia intorno all’11,6 % e che sia 3 volte più frequente nelle donne che negli uomini; infatti, viene definita una “malattia di genere” (CENSI, 2019).

Le conseguenze psicologiche della cefalea

Emicrania e cefalea sono malattie sottostimante e spesso malcurate dalla sanità pubblica, e possiedono delle caratteristiche che le rendono invalidanti: sono associate a un peggioramento globale della qualità della vita e a un rischio doppio di depressione (Amiri, Behnezhad & Azad, 2019). Esse hanno un effetto negativo sulla prestazione lavorativa: in uno studio si è visto che il 43% degli impiegati con emicrania e il 12 % con cefalea da tensione stavano assenti più dei dipendenti senza emicrania, a causa del mal di testa (Molarius, Tellberg, 2006).  

Secondo il Censi (2019), l’emicrania ha un decisivo impatto sul benessere della persona, non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico. Si è osservato che il 90% delle persone la sottovalutino socialmente, mentre di chi ne soffre, il 66% si sente non capito e anzi, considerato come esagerato quando riferisce di avere un attacco doloroso di mal di testa. Inoltre, chi soffre di emicrania si sente mal visto e giudicato socialmente per il proprio mal di testa. Alcuni (40%) riferiscono di sentirsi un peso per i familiari; altri (31%), invece si sentono percepiti come meno affidabili sul lavoro. Come è possibile osservare dai dati forniti dal Censi, la cefalea di tipo emicranico può essere invalidante per le persone che ne fanno quotidianamente esperienza e coloro che ne sono colpiti possono non sentirsi capiti nel proprio dolore.

Vincolo o risorsa? L’ambiente di vita della persona con il mal di testa

Alcuni studi mostrano come l’ambiente di vita della persona con il mal di testa possa essere un vincolo oppure una risorsa nel tamponamento e/o nella diminuzione dell’intensità della malattia, partendo dall’ambiente familiare, fino ad arrivare al contesto sociale e lavorativo. Tra le conseguenze dei disturbi primari del mal di testa, e in particolar modo l’emicrania, aleggia un particolare stigma intorno a coloro che soffrono di cefalea, che si dispiega attraverso gli atteggiamenti e l’attribuzione di stereotipi. Le persone con cefalea, specialmente emicranica, vengono spesso etichettate con frasi come piagnucolone, isterico, ipocondriaco, pigro, nevrotico, incapace di gestire lo stress e altre ancora. Ma che cosa rende l’emicrania così vulnerabile allo stigma? Per primo, il fatto che sia invisibile, non può essere misurata o confermata da un test, cosa fa sì che queste persone siano considerate meno affidabili e credibili; inoltre, come l’asma o l’autismo, è una malattia dello spettro, pertanto, può colpire ciascun individuo con modalità e gravità differenti. Infine, ha un impatto notevole sulla produttività e sul benessere lavorativo (Parikh, Kempner & Young, 2021).

Rispetto a come le persone con mal di testa vengono percepite nel contesto lavorativo, uno studio ha indagato le impressioni dei colleghi nei confronti delle persone con emicrania e, quello che è emerso, è che il 31% di queste persone crede che questi usino l’emicrania come modo per uscire dal lavoro o dagli impegni scolastici. Il 45% crede che sia facilmente trattabile con i farmaci e il 36% che sia il risultato dei loro comportamenti malsani. Al contrario di quanto si aspetti, le persone con più conoscenti emicranici avevano più concezioni negative e gli autori lo correlano al fatto che sia una malattia che ha un forte impatto sui familiari e sugli amici (Shapiro et al., 2019).          
Le persone che vengono discriminate a causa del proprio mal di testa, specialmente quando emicranico, riferiscono di sentirsi fuori controllo rispetto alla propria condizione, elemento che contribuisce ad aggravare in maniera significativa lo stress psicologico (Nichols, Ellard, Griffiths, Kamal, Underwood, Taylor et al., 2017); infatti, si è visto che la discriminazione percepita può peggiorare direttamente il dolore cronico e arrecare un peggioramento complessivo della salute. Invece, altri studi hanno approfondito l’influenza del contesto familiare sull’intensità del sintomo cefalico e hanno ipotizzato che un buon funzionamento familiare potesse stemperare il dolore cronico dovuto al mal di testa e diminuire i livelli di angoscia (Mohammadi, Zandieh, Dehghani, Assarzadegan, Sanderman & Hagedoorn, 2017), molto presente nei pazienti cefalici (Falavigna et al., 2017); pertanto, la famiglia svolgerebbe un ruolo importante nell’aiutare il paziente ad affrontare il dolore e diminuire l’intensità del sintomo.

“Perchè” si somatizza attraverso il mal di testa?

Nel corso del tempo, alcuni autori hanno provato a rispondere a questa domanda e cercato di capire che cosa potesse significare un attacco di mal di testa per queste persone. Ma prima è importante chiarire il significato della parola “somatizzare”, perché molto in uso, ma spesso con significati sbagliati. Sebbene in ambito psicologico non tutti sono concordi nella sua definizione, generalmente viene definita come quella inseparabile e costante interazione tra la psiché e il soma (APA; 1980). Se questa correlazione non ci fosse “quando il corpo è ferito non ne sentirei dolore, ma percepirei tale ferita con il puro intelletto”, diceva Cartesio (Baldoni, 2020). Secondo il modello di Morin (1993), le malattie psicosomatiche devono essere studiate secondo un’ottica più complessa, che coinvolga si i fattori fisici e psicologici, ma anche le componenti sociali e contestuali che possono contribuire nel far si che la patologia prenda forma. Pertanto, nella genesi della malattia vi sono fattori psicosociali che possono stimolare un fattore medico e fisico, in un individuo che presenta già una vulnerabilità individuale per quel determinato disturbo (Gritti, 2019).

Uno dei primi studiosi della patologia psicosomatica ad aver tenuto in considerazione questa molteplicità di fattori fu Salvador Minuchin presso l’Ospedale Pediatrico di Philadelphia Child Guidance Clinic, dove ha approfondito la relazione tra malattia e contesto familiare. Negli studi sui bambini diabetici, egli poté osservare che le modalità relazionali che intercorrevano nella famiglia avevano una certa influenza sul bambino, il quale, quando si sentiva sottoposto a stress, presentava un aumento degli acidi grassi liberi, che inclinavano la chetoacidosi diabetica. Conseguentemente, lo stress emotivo esperito a causa dei frequenti litigi familiari faceva sì che avvenisse un rilascio di zuccheri nel sangue. Inoltre, lo studio individuò tre caratteristiche che accomunavano questi bambini: un certo tipo di organizzazione familiare che incoraggia la somatizzazione, il coinvolgimento emotivo del bambino nei conflitti familiari e la sua vulnerabilità fisiologica (Minuchin, Baker, Rosman, Liebman, Milman & Todd, 1975). Infine, per comprendere la malattia psicosomatica è importante considerare più di un nesso causale nella sua origine e leggerla come un’interazione fra variabili sia di natura fisica, che psicosociale, mutualmente interagenti.

Nella letteratura psicologica, alcuni autori hanno descritto il mal di testa come una sorta di “blackout”, che inibisce il pensiero e il ragionamento, e difende l’individuo da pensieri disturbanti e perturbanti (Marty, 1952). Invece, altri studiosi l’hanno descritta come un forte meccanismo di controllo legato a perfezionismo e orientamento al dettaglio (Kempner, 2014), oppure a una forte tensione correlata a una difficoltà di rilassamento (Hendler, 1981). Per alcune persone, il mal di testa si presenta accompagnato da un intenso rimuginare, una tendenza a tenere dentro emozioni difficili oppure mandare giù bocconi amari. Il corpo si sostituisce alla parola e consente di mantenere un equilibrio psicologico. In alcune persone è stata osservata una contrapposizione nitida tra ragione ed emozione: quindi da una parte, un utilizzo di strategie di problem solving logico-razionali, e dall’altra, una difficoltà ad esprimersi sul piano emotivo (Fromm-Reichmann, 1937).

L’intervento sul dolore legato al mal di testa

Sul piano sanitario, è importante che aumentino sì i servizi rivolti alla cura delle cefalee, ma anche le possibilità per le persone di conoscere la patologia e le sue conseguenze psicofisiche. E’ fondamentale che il personale sanitario riceva una adeguata formazione, sappia fornire le diagnosi appropriata e, infine, indirizzare i pazienti verso il trattamento adeguato. Come ultimo, è essenziale che ci sia più sensibilizzazione e vengano promosse attività di contatto per chi non conosce la malattia.         
La cefalea è una malattia invalidante ed è importante che avvenga una presa in carico ad ampio raggio, che consideri non solo un trattamento corporeo ma anche un intervento psicologico. L’intervento psicologico non è direttamente indirizzato alla risoluzione del sintomo, dal momento che, come osservato precedentemente, ha una origine biopsicosociale; tuttavia, si propone come uno spazio di pensiero e di analisi dei fattori contestuali per agevolare la gestione del dolore. La “malattia diventa un biglietto di sola andata per la trasformazione” (Gritti, 2019): avverte che è arrivato il momento di creare cambiamento nel sistema, si mostra come vincolo, a causa dell’intensità della sofferenza, ma è allo stesso tempo risorsa, perché promotore di cambiamento.

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